Secondo lo studio Hr trends and salary report, realizzato da Randstad in collaborazione con l’Alta scuola di psicologia Agostino Gemelli dell’Università Cattolica, il 78% dei manager delle risorse umane intervistati pensa che sia necessario attivare processi di cambiamento organizzativo per rendere le imprese più competitive.

Bello, vero? Scommetto che non avete mai sentito una richiesta di questo tipo e che avete subito colto l’originalità di questo bisogno!
Ironia a parte, questo bisogno, legittimo dal punto di vista razionale, confligge con la nostra stessa natura neurale: il nostro è un cervello neofobico, ha paura delle novità a prescindere.
Ecco perché non amo molto parlare di resistenza al cambiamento, né in aula né in azienda; non serve a nulla. Lo sai probabilmente anche tu avendolo magari sperimentato nel tuo gruppo di lavoro.

Prima di lanciarsi in elucubrazioni retoriche sui massimi sistemi, bisogna trovare un bilanciamento tra la creazione di un buon clima tra le persone e l’esigenza di avere una squadra performante che oggi determina se un’azienda sta in piedi o meno nei diversi futuri possibili.
Senza un buon clima non si possono ottenere grandi risultati, ma è anche vero che non si deve cadere nella facile situazione in cui si perdono di vista gli obiettivi pur di mantenere un buon clima. In organizzazioni che cambiano continuamente è questo bilanciamento che deve essere raggiunto.

E allora, quali sfide dovremmo porci? Partiamo anche qui da alcuni dati. Tralasciando sistema e approcci con cui si effettuano le selezioni, nota dolente su cui ci sarebbe tutto un altro capitolo da affrontare, tre responsabili delle risorse umane su quattro saranno alle prese tra poco con un aumento dell’organico dovuto a diversi fattori: in poco meno di un caso su due (46%) per inserire nuove competenze, nel 26% per far fronte alle uscite per pensionamento, nel 20% per il turn over. Cosa viene ricercato tra i candidati? Competenze professionali specifiche (51%), esperienza (35%) e capacità di lavorare in gruppo. In ogni caso la maggior parte delle organizzazioni ha in agenda piani di formazione per compensare i gap. Ma quale formazione? Per prendere quale direzione?

Ebbene, quando gli imprenditori e i manager mi chiedono di progettare un percorso formativo perché nella loro azienda c’è bisogno di cambiamento, parto dalla consapevolezza che sia prima necessario cambiare il modo di lavorare, i processi interni e la direzione operativa (come pure ha evidenziato dal 78% dei manager intervistati nella medesima ricerca di cui sopra). Questa consapevolezza fa il paio con un’altra: la leadership ha caratteristiche diverse dal passato, è più diffusa rispetto al passato.

Se per leadership intendiamo un processo volto a influenzare comportamento ed attività di un individuo o di un gruppo che si impegna per il conseguimento di obiettivi in una determinata situazione, allora il leader e la leader devono essere capaci di ispirare e motivare gli altri. A questo proposito va però notato che nei leader attuali primeggiano soprattutto le capacità analitiche e di risoluzione dei problemi (58%), ma solo uno su tre ha la capacità di ispirazione e motivazione.

Forse, finalmente, si comincia a intravedere una progressiva presa di coscienza nelle imprese circa il bisogno di figure in grado di governare processi che connettano la dimensione relazionale con quella della produttività.
Basta, quindi, con il mito incarnato del leader solitario, dell’uomo che non deve chiedere mai con cui abbiamo gestito le organizzazioni come fossero un dopobarba.
Basta, quindi, con lo scaricabarile mascherato da esercizio responsabile della delega.
E basta, quindi, con i guru della leadership che hanno alimentato un bisogno di emulazione che, a pochi giorni dalla frequentazione del loro #corsocherivoluzioneràlatuavita, va inevitabilmente a confliggere con la personalità di chi ha bisogno di strumenti pragmatici con cui alimentare le buone pratiche organizzative.

D’altronde, nella storia dell’evoluzione dell’essere umano lo sviluppo di nuove idee avviene soprattutto attraverso processi informali e solo in misura minore attraverso team di lavoro predisposti o appositi processi strutturati: più “thought storming” e meno “brain storming”, soprattutto in Italia dove le idee viaggiano quando siamo in presenza di quella che Boyatzis e McKee definiscono leadership risonante, ai cui testi e studi mi ispiro per tessere la didattica dei miei corsi sul tema.
È stato dimostrato, ricerche alla mano, che le persone a contatto con leader risonanti sviluppano una marcata attitudine alla soluzione dei problemi, al prendere decisioni, alla focalizzazione dell’attenzione e al controllo delle azioni. Non solo, la leadership risonante stimola autoconsapevolezza emotiva, cognizione sociale e i processi decisionali di tipo etico; è strettamente associata a creatività e apertura a nuove idee.

Tutti possono essere leader risonanti – nelle proprie relazioni, nel proprio team, nella propria organizzazione – rispettando innanzitutto il proprio modo di essere e la propria personalità, attraverso due fattori oltre la tanta fuffa che vi gira intorno: l’assertività, ovvero la capacità di esprimere in modo chiaro ed efficace le proprie emozioni e opinioni senza tuttavia offendere o aggredire l’interlocutore, né tantomeno essere remissivi; e l’empatia, ovvero la capacità di comprendere appieno lo stato d’animo altrui senza tuttavia lasciarsi coinvolgere eccessivamente o farsi prendere dalla compassione.
Empatia e assertività sono le competenze da mettere nella cassetta degli attrezzi dei manager per generare benessere, relazioni di qualità e leadership risonante.

Sono competenze che fanno parte nel nostro patrimonio neurale ed evolutivo: sta a noi allenarle e metterle al servizio dei futuri delle nostre organizzazioni!

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La frase giusta: Non aspettare che arrivino i leader. Fallo da solo, persona per persona. (Madre Teresa di Calcutta)